Post 13- “La società senza dolore” - Byung-Chul Han

Introduzione al testo

Byung-Chul Han, filosofo e teorico della società, affronta nel suo saggio La società senza dolore (2021) una riflessione sul modo in cui il mondo contemporaneo gestisce la sofferenza. Secondo Han, la nostra epoca si caratterizza per un rifiuto sistematico del dolore, visto come un ostacolo da eliminare piuttosto che come un elemento essenziale della condizione umana. L'autore lega questa tendenza ad un più ampio fenomeno di derealizzazione della realtà, in cui la sofferenza viene rimossa a favore di un'esistenza anestetizzata e priva di profondità.

Tesi centrale

“Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei”, questo è il motto di Ernst Jünger citato dall’autore con cui il libro inizia. Han affronta la tematica per cui la società contemporanea cerca di abolire il dolore a tutti i livelli: fisico, psicologico e sociale, attraverso la medicalizzazione, la tecnologia e la cultura dell’intrattenimento. Tuttavia, sostiene che la sofferenza ha un valore costitutivo per l'identità individuale e collettiva: il dolore non è solo una condizione da sopportare, ma anche una forza che permette la crescita, la solidarietà e la comprensione del reale.

Punti chiave

  1. L’eliminazione del dolore come fenomeno culturale
    Han osserva come nella società contemporanea il dolore sia diventato un tabù. La medicina, il consumo e la tecnologia lavorano incessantemente per rimuovere qualsiasi forma di sofferenza, trasformando la vita in un’esperienza sempre più asettica e superficiale. Questo si riflette anche nel linguaggio e nella comunicazione, dove il confronto critico e la dialettica vengono spesso evitati per non generare disagio.

  2. L’effetto anestetizzante della società digitale
    Il filosofo sottolinea come la digitalizzazione e l’iperconnessione abbiano contribuito a questa anestesia sociale. I social media e la cultura dello spettacolo creano una realtà filtrata e priva di spigoli, in cui si evita lo scontro con il dolore e la sofferenza altrui.

  3. Il dolore come esperienza formativa e collettiva
    Han richiama l’attenzione sulla funzione del dolore nella costruzione dell’identità e della solidarietà sociale. La storia mostra che il dolore condiviso può essere un motore di trasformazione collettiva, come dimostrano i movimenti di protesta o le grandi svolte storiche. Tuttavia, nella società odierna il dolore viene privatizzato e ridotto a un problema individuale da risolvere con farmaci o terapie, piuttosto che come un’esperienza capace di generare empatia e cambiamento.

  4. Concetto di felicità

    L’autore spiega come il dolore sia in realtà il sostenitore della felicità, difatti la felicità dolorosa non è affatto un ossimoro, ma due facce della stessa medaglia. Citando Nietzsche, “la felicità e l’infelicità sono, due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o […] restano piccole insieme”.

  5. La scomparsa del tragico e il dominio del piacere
    Han si richiama alla tradizione filosofica e letteraria per mostrare come il dolore abbia sempre avuto un ruolo nella comprensione del mondo. Nelle società premoderne, la sofferenza era parte integrante della vita e trovava espressione nel mito e nella tragedia. Oggi, invece, viviamo in una società che cerca solo il piacere immediato, eliminando la profondità esistenziale che il dolore può offrire.

  6. Il dolore è differenza

    Il dolore marca i confini e sottolinea le differenze: senza il dolore, sia il corpo sia il mondo affonderebbero in una in-indifferenza. Il fisico e filosofo Weizsäcker spiega bene questo concetto quando dice: “solo attraverso il dolore posso esperire ciò che è mio e tutto ciò che ho […], che io abbia tutti questi organi posso evidentemente pervenire a notarlo anche altrimenti, ma soltanto il dolore mi insegna a comprendere quanto essi mi siano cari”. Vorrei citare, riassumendolo, un esempio descritto dallo scrittore italiano Nicola Pesce a tal punto: “un anno fa mi sono fatto male ad un ginocchio, io odio i farmaci e stupidamente non ho fatto nulla per curarlo, tuttavia ho scoperto il mio corpo, mi sono reso conto di cose che non mi ero reso conto mai, come ad esempio fosse straordinario poter salire un gradino, ora che non potevo farlo più, e dopo averlo curato successivamente, ho apprezzato come il dolore sia stato in realtà un modo per percepire meglio la mia vita”.

 

Il dolore: nemico o messaggero?

Han descrive una società ossessionata dall’eliminazione del dolore, mentre l’osteopatia lo considera un elemento essenziale per comprendere lo stato di salute di una persona. Il dolore, infatti, non è solo un ostacolo, ma un messaggio del corpo che segnala squilibri e tensioni. Sopprimerlo senza indagarne le cause significa privare il paziente della possibilità di ascoltare il proprio organismo.

L’approccio osteopatico, in questo senso, si oppone alla tendenza medicalizzata che Han denuncia: non si limita a "spegnere il dolore" con farmaci o interventi invasivi, ma cerca di riportare equilibrio nel corpo, permettendo al paziente di attraversare il dolore in modo costruttivo.

L’anestesia della società e la perdita della consapevolezza corporea

Un tema fondamentale affrontato nel libro è la tendenza della società moderna a vivere in una condizione di anestesia generalizzata.

Nell’era digitale, in cui trascorriamo ore seduti davanti a uno schermo, scollegati dalle nostre percezioni fisiche, il corpo viene trascurato e il dolore viene trattato come un fastidio da eliminare, anziché come un segnale da ascoltare. Han critica questa tendenza e, da osteopata, non posso che concordare, perché, citando nuovamente Jünger, il dolore, venendo respinto si somma di nascosto creando un “capitale invisibile” che “matura gli interessi e gli interessi sugli interessi”. Purtroppo l’odierna epidemia di dolori cronici sembra confermare la tesi di Jünger, proprio nella società moderna avversa al dolore si moltiplicano i dolori silenti, che persistono nella loro assenza di senso, di linguaggio, di immagine.

 

Conclusione

L’analisi di Han sulla società che rifiuta il dolore è una critica che può essere letta in chiave osteopatica come un monito a recuperare una maggiore consapevolezza del corpo. L’eliminazione sistematica del dolore senza comprenderne la causa rischia di allontanarci dalla nostra vera natura e di farci perdere un'opportunità di crescita.

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